La Giustizia senza ritardi è un Diritto Umano

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«Ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo, alle seguenti garanzie: […] c) ad essere giudicato senza ingiustificato ritardo». Questa è una delle prescrizioni previste, in questo caso all’articolo 14, dal “Patto internazionale sui diritti civili e politici”.

Si tratta di uno dei tre strumenti d’attuazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, di quella Carta, cioè, di cui ieri, 10 dicembre, abbiamo ricordato il 70° anniversario dell’adozione. Il “Patto”, invece, è più giovane: fu adottato dall’Assemblea Generale il 16 dicembre 1966, è entrato in vigore il 23 marzo 1976.

La Costituzione Italiana, all’articolo 111, tiene traccia di questo principio dove stabilisce che, in riferimento ai procedimenti giudiziari, «la legge ne assicura la ragionevole durata».

Anche la “Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo”, firmata a Roma il 4 novembre 1950, all’articolo 6, prevede che le cause vengano esaminate «entro un termine ragionevole».

Di questi tempi è invece l’approvazione, alla Camera dei Deputati del Parlamento italiano, una norma che, allungando i tempi di prescrizione, allunga il tempo, e quindi il ritardo, per giudicare un individuo.

Che potere ha il cittadino, per tutelarsi? In via preliminare alcuno. Può, o potrebbe, chiedere una «equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo» [nota 1].

Giustizia senza ritardi, arriva la legge Pinto con l’equo risarcimento

É stata la legge n. 89 del 2001, promossa dal senatore avv. Michele Pinto (PPI), sotto un governo di centrosinistra, l’Amato II, a realizzare questo strumento.

Nonostante la previsione costituzionale, infatti, fino all’entrata in vigore della legge Pinto, il principio era rimasto per anni formula vuota in assenza di uno specifico strumento normativo capace di assicurare un risarcimento alla parte processuale vittima di un giudizio svoltosi oltre una durata ragionevole.

Non si trattava, certamente, di una legge perfetta: anche la legge Pinto presentava dei “buchi” e delle “limitazioni” [nota 2].

I governi Monti e Renzi contro la legge Pinto

Tuttavia, successivamente, lo Stato è intervenuto, in senso più restrittivo, limitando il diritto al risarcimento.

In particolare, il governo Monti – appoggiato tanto dal Forza Italia che dal PD -, nel 2012, iniziava a smantellare l’impianto legislativo originale, cioè fruizione della «equa riparazione» attraverso il Decreto Legge 83 [nota 3]. Poi, il governo Renzi – con la Legge 208/2015 – ha dato il colpo di grazia alla legge Pinto [nota 4].

É Giustizia, per le vittime, quella ottenuta in ritardo? É giusto, per gli imputati, specie se alla fine risultati innocenti, restare sulla “gogna” anni ed anni? In definitiva, per lo Stato italiano, una Giustizia senza ritardi è un Diritto Umano?

 

NOTE

[nota 1] – La legge Pinto, in particolare prevedeva che il risarcimento del danno fosse stabilito:

– «a norma dell’articolo 2056 del codice civile» cioè «dal giudice con una valutazione equitativa»;
– e, in aggiunta, «attraverso adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell’avvenuta violazione» (previsione poi abrogata dalla riscrittura del 2012).

[nota 2] – Due gravi fattori negativi erano già presenti nella legge Pinto originaria e consistevano nella debole “copertura” finanziaria («l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili», art. 3, comma 7) e nell’abbreviazione dei termini di prescrizione della richiesta di risarcimento – che normalmente è fissato in 5 anni – che qui andava esercitata «entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva» (art. 4).

La norma, inoltre, lasciava eccessiva discrezionalità al Giudice sulla determinazione della «ragionevole durata» dei procedimenti.

[nota 3] – La riscrittura montiana della “Pinto” disincentivava il ricorso alla richiesta di indennizzo («il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000», art. 5); stabiliva una durata “ragionevole” del processo in una misura sì ora determinata ma molto ampia («Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni», comma 2 ter dell’art. 2) e ne limitava l’importo («non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo», art. 2 bis).

[nota 4] – La riscrittura renziana della “Pinto” nasceva quasi come risposta alla sentenza della Corte Costituzionale n. 184 dell’8 luglio 2015 che aveva accolto le istanze delle vittime della malagiustizia anticipando i termini di decorrenza del calcolo per la «ragionevole di durata del processo».

Ora si prevede una riduzione del risarcimento («non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi», nuovo testo art. 2 bis).

Soprattutto a chiudere le porte a rimborsi è la previsione dell’obbligo, posto a carico del ricorrente, di «esperire rimedi preventivi» per poter – eventualmente -, in caso di esito negativo, poter avere il diritto al risarcimento (art. 2, comma 1; art. 1 bis, comma 2; art. 1 ter).

Il ricorrente, in pratica, deve presentare al Tribunale «un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini». Cioè occorre che sia il cittadino a ricordare al Tribunale che stanno scadendo i termini affinché la durata del procedimento sia “ragionevole” (!).

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Natale Salvo

Nato e cresciuto nella terra del “Gattopardo”, la Sicilia. Ha dedicato la propria esistenza all'impegno sociale. Allenatore di una squadretta di calcio di periferia, presidente del circolo di Legambiente, candidato sindaco per il Partito Umanista. Infine blogger d’inchiesta; ha pagato le sue denunce di cattiva amministrazione con una persecuzione per via giudiziaria. E' autore del libro "La rivoluzione copernicana chiamata Reddito di Base", edito da Multimage, Firenze.

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