Idee e diritti vengono anche dall’Iran

“È una battaglia per salvare l’Occidente.”
Così viene spesso sintetizzata la guerra condotta da Benjamin Netanyahu, con toni che richiamano una missione di civiltà. È una frase emblematica, simbolo della retorica geopolitica dominante. Ma dietro questa narrazione si cela una costante ideologica che attraversa tutto il discorso pubblico occidentale: l’eurocentrismo politico.
Questa idea presuppone che nel lungo sviluppo storico dell’umanità, una sola area — l’Europa e il suo prolungamento atlantico, gli Stati Uniti — abbia avuto il raro privilegio di generare sistemi democratici, diritti civili, modernità politica. Tutto ciò che è “altro” da questo asse viene spesso dipinto in negativo: statico, arretrato, illiberale. Il mondo islamico, in particolare quando non allineato al neoliberismo globale, è rappresentato come feudale, classista, sessista. Una lettura che, sorprendentemente, accomuna anche molte frange della sinistra liberale — o, come scriveva ironicamente Ennio Flaiano, “radical chic”.
Ma cosa fa notizia, oggi, nei media occidentali più di ogni altra cosa? Le repressioni, le mancanze di diritti, le violazioni della libertà nei paesi di ispirazione islamica. Nel clima di revival bellico promosso da Netanyahu, l’obiettivo ricorrente è uno: l’Iran. E non solo da parte dei conservatori, ma anche da molti settori progressisti euro-americani.
Secondo questa narrativa, l’Iran rappresenta il blocco statico della storia, inchiodato tra la dittatura dello Shah Reza Pahlavi e l’autoritarismo religioso dell’ayatollah Khomeini. È il “regno del male” della propaganda reaganiana, o “l’asse del male” secondo George W. Bush dopo l’11 settembre.
Ma guardando da vicino, questa visione semplificata non regge.
Perché l’Iran ha anche rappresentato, nella seconda metà del Novecento, uno dei laboratori più vivaci di pensiero politico alternativo all’Occidente.

Gli ideologi dell’Iran socialista
Un nome emerge su tutti: Ali Shariati, spesso ricordato in patria come “Dr. Ali Shariati” (nella foto). Figura centrale dell’ideologia che ha alimentato la rivoluzione islamica, Shariati fu un pensatore eclettico che cercò di coniugare l’Islam sciita con il socialismo, la filosofia europea e l’antico patrimonio culturale persiano.
La sua idea principale: l’ideologia non come apparato dogmatico, ma come strumento per il riscatto sociale. In questo, Shariati richiama il vecchio idealismo hegeliano e i pensatori moderni che hanno visto nella tensione verso l’ideale un motore di trasformazione storica. Il suo metodo epistemologico? Recuperare la cultura e il mito della Persia antica come risorsa simbolica per combattere il neocolonialismo rappresentato dal regime filo-occidentale dei Pahlavi. In pratica: usare le radici locali per sfidare l’imperialismo globale.
Ma Shariati andò oltre. Propose una rivisitazione radicale dell’Islam sciita, non come religione clericale e repressiva, ma come forza rivoluzionaria. Criticò apertamente il ruolo del clero — imam, mullah, ayatollah — nella vita sociale, anticipando un dissenso interno che ancora oggi è vivo nella società iraniana. La sua teologia era una sorta di “teologia della liberazione” islamica, molto vicina a quella elaborata in America Latina, ma declinata in chiave sciita e postcoloniale.
Il progetto era ambizioso: unire spiritualità e lotta di classe, cultura locale e pensiero radicale. Contrastare il potere postcoloniale senza cedere alla mimesi dell’Occidente, ma rielaborando forme politiche indigene e profondamente moderne allo stesso tempo.
Shariati non fu un caso isolato. In quegli anni, l’Iran fu terreno fertile di ideologie alternative: dal nazionalismo democratico di Mossadegh [1], alla “terza via” di Abolhassan Bani Sadr [2], passando per la formazione critica del pensiero religioso in esilio, di cui anche Khomeini — almeno inizialmente — fu partecipe.
Un Iran che non stava bene all’Occidente
E allora, la domanda finale resta aperta:
Cosa sarebbe stato dell’Iran e forse dell’intero Medio Oriente, se avessero avuto lo spazio per svilupparsi liberamente queste idee?
Senza l’intervento costante delle superpotenze, senza le strategie del “divide et impera”, senza il bisogno occidentale di trovare sempre un nuovo nemico ideologico da contrapporre alla propria narrazione salvifica?
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Fonti e Note:
Credits: foto “La Moschea e edificio” in ISFEHAN, Iran di Mohsen khorrampour su Unsplash.
[1] Mohammad Mossadeq – Leader del Fronte Nazionale dell’Iran, ottenne l’incarico di primo ministro dopo essere stato democraticamente eletto, ma fu deposto nel 1953 in seguito ad un colpo di stato sostenuto dai servizi segreti di Gran Bretagna e Stati Uniti, appoggiato anche dalla casa regnante dei Pahlavi, i quali si opponevano alla sua decisione di nazionalizzare la Anglo-Persian Oil Company.
[2] Abolhassan Bani Sadr – Ritornò in Iran insieme a Khomeini all’inizio del febbraio 1979, pochi giorni prima della definitiva caduta dell’ultimo governo fedele allo Scià. Il 25 gennaio 1980 Banisadr fu eletto presidente per un mandato di quattro anni, ricevendo il 70 per cento dei voti in una regolare elezione che lo vedeva opposto a numerosi altri candidati. La “convivenza” con Khomeini si rivelò subito difficile: Banisadr iniziò quasi subito a dissentire da molti pareri dell’Ayatollah. Gli attriti fra Khomeini e Banisadr giunsero all’epilogo nel giugno 1981. Il 10 giugno Khomeini richiamò a sé i poteri di comandante in capo, che aveva delegato al presidente. Banisadr fuggì dall’Iran.
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