Il potere dell’ignoranza e della connivenza

C’è un premio che pochi conoscono: il Premio Renzo De Felice, dedicato alla saggistica e al giornalismo, che si tiene nel Nord-Est italiano. È intitolato a uno storico controverso, noto per aver analizzato i legami ideologici tra il primo fascismo, i regimi comunisti e i totalitarismi del Novecento. A De Felice si è spesso associata l’etichetta di teorico del “rosso-brunismo” — una convergenza tra estremi — ma la sua analisi era più scientifica che ideologica, a differenza di molte letture militanti diffuse tra gli anni ’70 e ’80, su riviste come Orion o pubblicazioni marginali come quelle di Barbarossa Edizioni.
Ma qual è la vera questione che attraversa il secolo scorso?
Il Novecento è stato il secolo delle masse, ma anche quello dell’idealismo distorto e violento, in cui milioni di persone vennero trascinate da figure carismatiche in progetti di potere assoluto. Sia attraverso modelli oligarchici, sia con il culto del “capo” — il Duce, il Führer, il Caudillo, il Rais, il Conducător — l’accentramento ha rappresentato il cardine della politica totalitaria.
Dalla democrazia alla distorsione di massa
Il cuore pulsante del secolo breve, come lo definiva Hobsbawm, è la nascita di:
- uno Stato chiuso,
- ossessivamente identitario,
- burocratico
- e repressivo.
A crollare, nel frattempo, erano gli ideali dell’Illuminismo: libertà, ragione, pace. Al loro posto emergevano nuovi culti della violenza, della velocità, della guerra come “igiene del mondo”, assieme a razzismi e antisemitismi sistematici.
Eppure, tra ideologie dichiaratamente opposte — fascismi e comunismi — il meccanismo era simile: la propaganda, il potere spettacolare dell’immagine.
La Germania hitleriana con le coreografie filmiche di Leni Riefenstahl, l’Unione Sovietica con le parate in Piazza Rossa, l’Italia mussoliniana con le cineprese che mostravano il Duce mentre trebbiava grano nell’Agro Pontino. Tutto contribuiva a trasformare la società in un corpo unico, trascinato verso il delirio egotico del leader di turno.
La dittatura dell’ignoranza
Il vero nemico, in fondo, è l’ignoranza. O meglio, la dittatura che si fonda sull’ignoranza collettiva. È qui il punto cieco del XX secolo: l’accettazione, spesso entusiastica, della sottomissione. Le masse, non educate alla critica, hanno seguito — e talvolta invocato — i regimi che le avrebbero annientate.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, poi, si è passati alla democrazia bipolare della Guerra Fredda, e infine a quella che Zygmunt Bauman ha chiamato “modernità liquida“. Un’epoca cominciata — simbolicamente — con il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e che ancora oggi fatica a trovare un equilibrio all’interno del sistema capitalistico globale.
Assemblearismo e responsabilità: l’alternativa possibile
Dare credito alle teorie dei rosso-bruni? No. Ma ignorarne le intuizioni strutturali sarebbe un errore.
La realtà è più semplice (e più spietata): in tempi di crisi sociale ed economica, alimentata da diseguaglianze e instabilità finanziarie, le masse tendono a reagire seguendo la scorciatoia più pericolosa — quella del consenso acritico.
Come scriveva Ortega y Gasset, “la ribellione delle masse” non è liberazione, ma ritorno alla minorità, in cui la folla delega il proprio destino a chi urla più forte.
E allora? L’unica risposta è culturale e politica: contro la dittatura dell’ignoranza, serve un’educazione alla responsabilità. Un nuovo modello di assemblearismo reale, che non sia farsa né burocrazia: dibattito, confronto, partecipazione. Un sistema in cui le masse imparino a pensare e decidere da sé.

È la dittatura del profitto, qualsiasi abito indossi.